I datori di lavoro e i professionisti che li assistono si trovano, spesso, alle prese con questioni che attengono alla gestione del rapporto di lavoro e, in particolar modo, con quelle che attengono alla disciplina, alla correttezza e al comportamento dei dipendenti, nonché con quelle che riguardano le diminuzioni delle capacità produttive e commerciali che postulano la risoluzione dei contratti per giustificato motivo oggettivo.
Appare sorprendente, ad esempio, come, a distanza di più di mezzo secolo dalla entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori (si era nel 1970), molti datori di lavoro si vedano cancellati i propri provvedimenti disciplinari, anche di natura conservativa, per vizi di forma o perché non hanno rispettato le procedure previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970 e dal contratto collettivo oppure perché nella lettera di contestazione non sono stati ben precisate le situazioni rispetto alle quali il lavoratore viene ritenuto passibile di sanzioni disciplinari: cosa che, ovviamente, si ripete nella lettera con la quale, ad esempio, si adotta il licenziamento.
Forse una maggiore attenzione alle norme e alle sentenze, soprattutto della Magistratura di legittimità, sarebbe auspicabile.
L’oggetto di questa breve riflessione riguarda il contenuto di una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 9544 di quest’anno, che ha focalizzato l’attenzione proprio sulla motivazione dei licenziamenti che, come detto pocanzi, viene spesso indicata in maniera non esaustiva o, addirittura, omessa.
Eppure, il comma 2 dell’art. 2 della legge n. 604/1966 è chiaro: “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”.
Il successivo comma 3 ricorda che il “licenziamento intimato senza l’osservanza delle disposizioni di cui al comma 1 (comunicazione per iscritto) e 2, è inefficace”.
La Cassazione, afferma alla luce della norma appena citata che “il licenziamento deve contenere i motivi specifici per cui viene intimato, motivi che vanno esplicitati contestualmente alla comunicazione dell’atto”.
Infatti, con la piena esplicitazione delle motivazioni, si garantisce il diritto di difesa del lavoratore che è un diritto incomprimibile alla luce di quanto affermato dall’art. 7 della legge n. 300/1970: se esse sono generiche, oscure nella normale percezione di un lavoratore oppure, del tutto assenti, non sarà mai possibile attivare un vero contraddittorio. Non si tratta di una mera violazione formale, da punire con una sanzione pecuniaria, ma di una sostanziale, cosa che determina una illegittimità del procedimento fin dall’inizio.
Quanto appena detto, appare indispensabile per comprendere ciò che la Corte ha affermato riferendosi al licenziamento di un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015, intimato da un datore di lavoro con un organico alle proprie dipendenze superiore alle 15 unità.
La Cassazione, ha riformato la decisione della Corte di Appello di Firenze che, in secondo grado, applicando il comma 6 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, come riformato dalla legge n. 92/2012, aveva riconosciuto soltanto una tutela indennitaria per il licenziamento illegittimo in quanto, per le ragioni addotte dal datore nel corso del giudizio peraltro non contestate dall’ex dipendente, si era in presenza di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Di conseguenza, secondo la Corte di Appello, occorreva applicare il predetto comma 6 che, a fronte della inefficacia del licenziamento per violazione del requisito della motivazione (violazione valutata come formale), riconosceva al lavoratore ricorrente la sola indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale, tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte di Cassazione offre, invece, una valutazione completamente diversa: infatti reputa illogica la tutela indennitaria prevista dal comma 6 per vizi formali minori e dispone l’applicazione della c.d. “tutela reintegratoria attenuata” disciplinata dal comma 4 che, oltre alla ricostituzione del rapporto, stabilisce la corresponsione di una indennità di natura risarcitoria fino ad un massimo di 12 mensilità in quanto equipara tale situazione - in un’ottica di sistema che trae origine dalle decisioni della Corte Costituzionale n. 2/3 59/2021, n. 125/2022 e n. 128/2024 - ai casi di insussistenza del fatto.
Per completezza di informazione, sottolineo che dalla indennità risarcitoria attenuata stabilita dal giudice, occorre dedurre quanto, eventualmente, percepito dal dipendente nel periodo di estromissione per altre attività lavorative oppure quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi, con diligenza, alla ricerca di una nuova occupazione.
Il comma 4 prevede anche il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento illegittimo fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi legali, ma senza sanzioni correlate all’omesso o ritardato versamento: ovviamente, se il lavoratore ha prestato attività durante il periodo in cui è rimasto fuori dall’azienda, la contribuzione dovuta è pari al differenziale tra quella maturata nel periodo di estromissione e quella accreditata a seguito dello svolgimento di altre attività lavorative.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che tale decisione consente di superare il paradosso del riconoscimento di una tutela minore (quella rappresentata dalla sola indennità risarcitoria, secondo la previsione dell’art. 18, comma 6) al caso più grave riscontrabile nella carenza della motivazione, mentre, nella ipotesi meno grave, quella del fatto addotto ma insussistente come dimostrato dal dibattito giudiziale, si avrebbe una tutela maggiore rappresentata dalla reintegra, sia pure “attenuata”, con una indennità risarcitoria non superiore alle 12 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione globale di fatto.
Al termine di questa breve riflessione, credo che alcune considerazioni siano necessarie: se si prendono in considerazione le decisioni della Corte Costituzionale, a partire dalla n. 194/2018 sulla indennità risarcitoria prevista nei licenziamenti attivati ex decreto legislativo n. 323/2015 e le sentenze della Cassazione intervenute negli ultimi otto anni, si può notare come le “certezze” - che la legge n. 92/2012 con la riforma dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e, soprattutto, il “Jobs Act” con il decreto legislativo n. 23/2015 avevano ritenuto di dover ai datori di lavoro in materia di “costo del licenziamento” - siano, progressivamente, venute meno.
Il Giudice, con le sue sentenze, è tornato al centro del dibattito processuale (nonostante che, salvo casi limitati, il decreto legislativo n. 23/2015 abbia cercato di trasformarlo in mero contabile delle mensilità dovute, in quanto già scritte nella norma, al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo) e, probabilmente, tornerà ad essere ancora più centrale se la Consulta, come già affermato, esplicitamente, un paio d’anni or sono, in caso di inerzia del Parlamento (cosa che si sta verificando) dovesse intervenire anche in merito alle tutele dei lavoratori occupati presso datori con meno di 16 dipendenti ove, in un mondo in continua evoluzione, il solo riferimento ai lavoratori dipendenti in forza è, ormai, insufficiente a catalogare una impresa come piccola.
Fonte: approfondimento di Eufranio Massi per il n. 153 della rivista “Il Mondo del Consulente”